Eugenio Cenisio, un artista cosentino del ‘900

Nato a Rose nel 1923 e allievo di Emilio Iuso, molte sue opere si trovano in edifici ecclesiastici e collezioni private locali. Il comune di Cosenza gli ha dedicato una piazza

di Lorenzo Coscarella

Tra i pittori-decoratori che caratterizzarono la vita artistica della Cosenza del ‘900 ricopre un posto particolare Eugenio Cenisio. Nato a Rose nel 1923, fu allievo di Emilio Iuso, artista che eseguì numerosi dipinti nelle chiese del Cosentino, e lo stesso Cenisio continuò sulla strada del maestro tanto che le sue opere si trovano sparse in numerosi edifici sacri della provincia. Oltre all’apprendistato sul campo, però, il giovane artista perfezionò la sua arte intraprendendo anche degli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli e diventando docente d’arte nelle scuole della sua città.

Cenisio ha lasciato una produzione sterminata di dipinti a tela, acquerelli, illustrazioni, dedicandosi molto alla rappresentazione di paesaggi e di scene di vita quotidiana, con un’attenzione particolare alla figura della donna. Molte sue opere si trovano in collezioni private e di pubbliche istituzioni, ma è all’interno delle chiese sparse sul territorio che è possibile ammirare alcuni dei suoi lavori più pregevoli. Come impresa decorativa merita di essere segnalato il lavoro eseguito nel Salone degli stemmi del palazzo arcivescovile di Cosenza, nel quale ha riprodotto sul soffitto un decoro a cassettoni e sulla fascia superiore della parete una iscrizione dipinta ad effetto mosaico, oltre alle insegne araldiche dei presuli cosentini. Resta ormai poco di uno dei lavori giovanili più interessanti dell’artista: l’intero ciclo decorativo della chiesa della Madonna di Fatima a Borgo Partenope, completato nel 1953. Nell’ampia navata Eugenio Cenisio si occupò sia di decorare pareti e soffitto, caratterizzati dalle tonalità pastello, sia di realizzare due grandi dipinti murali: una Immacolata Concezione al centro del soffitto della navata e, sulla parete di fondo del presbiterio, l’apparizione della Madonna ai tre pastorelli.

Altri suoi lavori si trovano nelle chiese di Donnici, Montalto, San Marco Argentano, Rose (solo per citare alcune località), e in questo ambito si occupò anche di restauri, intervenendo in Cattedrale sugli affreschi degli Apostoli eseguiti da Paolo Veltri e nelle chiese di Paola, Pizzo Calabro, Montauro. Particolare la vetrata che raffigura S. Francesco di Paola che attraversa lo Stretto di Messina, sulla facciata della chiesa dedicata al Santo a Cosenza, mentre è stata poco sottolineata la vasta attività nel campo della grafica, con le illustrazioni per diversi volumi.

Cenisio morì a Cosenza nel 1993, lasciando, oltre alle sue opere, il ricordo della sua attività di docente in molti dei suoi alunni. Alcuni anni dopo a Cosenza gli è stata dedicata la piazza tra il palazzo municipale e la nuova chiesa di San Nicola. Si segnala però la necessità di urgenti interventi per il dipinto murale dell’Apparizione della Madonna a Fatima a Borgo Partenope, ultimo superstite della decorazione della chiesa e ormai minacciato anch’esso dal crollo della copertura soprastante.

Fonte:
Lorenzo Coscarella, Eugenio Cenisio pittore, decoratore e artista cosentino del ‘900, in “Parola di Vita”, 26 luglio 2023, p. 8.

Le cripte “a scolatoio” di Cosenza

Diverse chiese cosentine presentano dei vani sepolcrali sotterranei dotati di nicchie con scolatoi. La cripta del Santissimo Salvatore, resa fruibile di recente, è uno degli esempi più interessanti.

Le usanze connesse alla morte, con tutto ciò che ne deriva dal punto di vista sociale, economico, e perché no anche artistico, negli ultimi due secoli hanno conosciuto un radicale mutamento. Ciò che oggi sembra afferire soprattutto alla vita privata, con rigide prescrizioni igienico-sanitarie a regolare alcune fasi, aveva in passato una dimensione pubblica e alcune usanze erano decisamente meno salubri, tra cui l’utilizzo delle chiese come luoghi di sepoltura.

Tutti sanno che l’editto di Saint Cloud, emanato da Napoleone nel 1804, vietò in Francia e nei paesi ad essa assoggettati (tra cui buona parte d’Italia), di seppellire i morti all’interno delle chiese. Pochi sanno, però, che questa prescrizione trovò nel resto del paese, e soprattutto nel Sud della penisola, una applicazione molto lenta.

Una “cruda” descrizione di ciò che ancora nel 1864 avveniva a Cosenza in questi casi ci viene presentata nei suoi scritti da Vincenzo Padula, letterato e sacerdote di Acri, secondo il quale in alcune chiese cittadine i morti venivano lasciati “disseccare” come dei “baccalà”. È un chiaro riferimento all’usanza di seppellire i defunti all’interno delle cripte cosiddette “a scolatoio”, nelle quali il cadavere veniva fatto asciugare naturalmente favorendo il deflusso dei liquidi corporei e “essiccando” il resto. Non solo. Padula aggiunge anche un altro particolare sull’usanza di far visita ad alcune di queste cripte in alcuni periodi, a rimarcare la labilità del confine tra la vita e la morte e per gli uomini del passato. Padula faceva riferimento, in particolare, al Cimitero di Santa Caterina, parte del complesso di San Francesco d’Assisi i cui locali furono svuotati e adibiti ad altro uso già nell‘800, ma nella città di Cosenza ci sono altri esempi.

Uno di quelli meglio conservati è la cripta della chiesa del SS. Salvatore, già dell’Arciconfraternita dei Sarti, fondata nel 1565. Nella navata, poco oltre l’ingresso, un’apertura nel pavimento dà accesso alla scala che immette nel locale dello scolatoio. Si tratta di un locale rettangolare coperto da volta a botte, che presenta un basso sedile che corre lungo tutto il perimetro della sala, con una serie di nicchie lungo le pareti. Al centro del soffitto una apertura comunicava con la navata soprastante, mentre in fondo alla sala un arco in tufo immette in un altro locale di minori dimensioni.

A Cosenza ce ne sono diversi altri, la gran parte dei quali però non è fruibile sia per le oggettive difficoltà di accesso, sia per le precarie condizioni statiche di scale e locali. Questa tipologia di cripta viene da qualche tempo, e poco pertinentemente, indicata con il nome “putridarium”, termine di recente utilizzo che asseconda un certo retrogusto macabro ma che non trova conferma nelle fonti locali d’epoca, che parlano genericamente di “sepolture”.

Un esempio molto interessante è quello della cripta con scolatoio presente sotto la cappella ottagonale della chiesa di San Domenico (PdV, 09/05/2013), un vano semicircolare caratterizzato da sedili in pietra. Altra cripta è presente sotto l’oratorio del Suffragio annesso alla chiesa di San Gaetano. Nella cattedrale merita un accenno la cripta a scolatoio all’interno della cappella dei Nobili, caratterizzata anch’essa da apertura della scala che immette nel piccolo vano circondato da sedili posto quasi al centro della cappella.

Particolarmente importante, ma di difficile accesso per condizioni pratiche, è poi il complesso di vani sottostanti la cappella della Consolazione nella chiesa di Sant’Agostino. Di sicuro altre chiese e cappelle cosentine avranno ulteriori esempi di questo tipo di sepoltura. Intanto la fruibilità della cripta dei sarti del SS. Salvatore permette di fare esperienza di un luogo simile. Un mondo tutto da indagare, al quale avvicinarsi senza pregiudizi e contestualizzando pratiche e spazi nel periodo di utilizzo, sapendo che si tratta di tracce significative della storia di un luogo.

Lorenzo Coscarella

Fonte articolo integrale:
Lorenzo Coscarella, Le cripte “a scolatoio” di Cosenza, in «Parola di Vita», 14 settembre 2022, p. 9.

Il PCI, la Calabria e il Mezzogiorno nel nuovo volume dell’ICSAIC

Il libro, curato per l’ICSAIC dagli storici Lorenzo Coscarella e Paolo Palma, ripercorre la storia del Partito Comunista nel Sud Italia dalla fondazione ai primi anni ‘50, con particolare attenzione alla Calabria

Comunicato stampa

Nato a Livorno nel 1921 dalla scissione del Partito socialista, il Partito Comunista d’Italia, poi Partito Comunista Italiano, fu caratterizzato anche da una forte attenzione al Mezzogiorno. Questo soprattutto da quando Gramsci ebbe il sopravvento su Bordiga divenendone, nel 1924, il segretario generale, e ancor di più dopo la caduta del regime, nel decennio successivo alla Liberazione.

Un nuovo volume voluto dall’ICSAIC, Istituto Calabrese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea, ripercorre trent’anni della storia del PCI nel Meridione, sin dalla sua nascita nel 1921 e fino al 1953, quando il “partito nuovo” aveva trovato ormai la sua collocazione nel sistema partitico italiano.

Il PCI, la Calabria e il Mezzogiorno. Da Livorno al “partito nuovo” (1921-1953), questo il titolo del volume edito da Luigi Pellegrini Editore, è stato curato da Paolo Palma, presidente dell’ICSAIC nonché storico e ex parlamentare, e da Lorenzo Coscarella, storico, giornalista e membro del direttivo dell’Istituto. Al suo interno raccoglie i saggi di storici, docenti universitari e studiosi del territorio che analizzano ad ampio spettro aspetti di questa attività del Pci nel Mezzogiorno in un trentennio molto delicato per la storia dell’intera nazione: Franco Ambrogio, Lorenzo Coscarella, Guido D’Agostino, Michele Fatica, Guido Liguori, Giuseppe Masi, Katia Massara, Prospero Francesco Mazza, Antonio Orlando, Paolo Palma, Christian Palmieri, Ercole Giap Parini, Martino Antonio Rizzo, Domenico Sacco, Pantaleone Sergi, e Francesco Spingola.

I contributi raccolti sono degli approfondimenti delle relazioni svolte dai vari autori al convegno nazionale Il Pci dalle origini al Partito nuovo in Calabria e nel Mezzogiorno 1921-1953 , tenuto presso l’Università della Calabria il 24 e 25 novembre 2021 e organizzato dall’ICSAIC nell’ambito delle iniziative per ricordare il centenario della fondazione del partito. Un anniversario che ha contribuito ad incrementare gli studi sul Partito Comunista, nel cui contesto il volume si propone di esaminare i connotati meridionalisti dell’azione del partito e sulla questione contadina, che esplose nell’immediato dopoguerra con occupazioni di terre ed eccidi. Lo fa sia osservando alcune tematiche specifiche di ambito generale e nazionale, sia focalizzando l’attenzione su specifici territori come la Campania, la Basilicata, la Puglia e, in particolare, la Calabria, regione di azione dell’Istituto.

icsaicstoria.it

1807: lavori in progetto per la “nuova” Cosenza

Nei primi anni del XIX secolo l’Amministrazione cittadina iniziò a discutere di alcune importanti opere pubbliche, realizzate solo alcuni decenni dopo. Tra questi il teatro, il cimitero e i condotti sotterranei

I primi anni del 1800 furono anche per la città di Cosenza, così come per gran parte del Sud d’Italia, un periodo di grandi cambiamenti. Con la breve parentesi della dominazione francese si era ormai avviata una nuova fase amministrativa e, venuta meno l’antica gestione della città da parte del Sedile, ci si avviava verso una amministrazione che potremmo definire comunale quasi nel senso moderno del termine.

Da alcuni documenti conservati presso l’Archivio di Stato, emerge come l’amministrazione cittadina dell’epoca iniziasse a pensare a delle importanti opere per migliorare la vita dei cosentini. Opere che in gran parte vennero realizzate solo molti anni dopo, ma che in quel periodo fondano la loro prima idea.

Al 5 maggio 1807 risale uno dei primi accenni all’idea di costruire un camposanto, e dismettere così la pratica di sepoltura nelle chiese cittadine. Erano passati meno di tre anni dall’editto napoleonico di Saint Cloud che disponeva la costruzione dei cimiteri fuori dalle mura cittadine e Cosenza sembrava volersi mettere al passo. Si era pensato dapprima al giardino dei Padri Riformati, accanto all’attuale chiesa del Crocefisso, ma secondo molti era troppo vicino all’abitato. Venne proposta dunque la realizzazione nella località detta “La Difesa”, al confine con Rende nei pressi del fiume Campagnano, dove erano già state sepolte le vittime di una dura epidemia. Della proposta non se ne fece nulla.

Nel 1811 si tornò a discutere di questa e varie altre opere da realizzare. In particolare si parlava della “restaurazione e formazione de’ condotti sotterranei, come anche quelle di un pubblico cimitero, un Teatro, ed i lumi di riverbero, per illuminare la città in tempo di notte”. Opere importanti dunque. I condotti erano un sistema di incanalamento delle acque. La città era ancora approvvigionata da poche fontane pubbliche, tra cui quella celebre detta “del Paradiso”, che andavano sistemate. Il cimitero si ipotizzava nuovamente nei pressi della Riforma. Qui venne realizzato solo alcuni decenni dopo e vi stette per breve tempo, finché venne realizzato l’attuale.

È interessante anche la notizia del teatro, che da altre fonti sappiamo che avrebbe trovato sede presso la chiesa del soppresso monastero dei gesuiti. Infine la proposta di predisporre un sistema di illuminazione notturna della città rende l’idea di come ormai il progresso stesse “giungendo” anche a Cosenza.

Fonte:
Lorenzo Coscarella, Lavori in città agli inizi dell’800, in “Parola di Vita”, 22 febbraio 2018, p. 10.

Il protiro del Liceo “Telesio” è ciò che resta dell’antico “Teatro Ferdinando”, realizzato nell’Ottocento sul luogo della demolita chiesa dei Gesuiti di Cosenza.

La Stauroteca

Eccezionale esempio di oreficeria medievale, secondo la tradizione la stauroteca di Cosenza giunse in città nel 1222 come dono dell’imperatore Federico II di Svevia alla cattedrale appena consacrata

La stauroteca di Cosenza è un vero e proprio simbolo della città. Questo capolavoro di oreficeria medioevale è forse il manufatto più conosciuto, studiato e fotografato, sia per il suo elevato pregio artistico sia per il carico di storie e di leggende che le sono affiancate ormai da secoli. Non a caso all’intero Museo Diocesano è il pezzo che catalizza maggiormente l’attenzione dei turisti, collocato in una teca al centro di una saletta circolare per permetterne al meglio la visione di entrambi i lati.

Una leggenda più volte ripresa dalla storiografia locale vuole che sia il dono offerto dall’imperatore Federico II alla città in occasione della consacrazione della Cattedrale, avvenuta il 30 gennaio 1222 e alla quale avrebbe preso parte lo stesso imperatore. L’epoca di realizzazione dell’opera viene però considerata precedente a questa data, ritenendo che sia stata realizzata attorno alla metà del XII sec. nel Tiraz, l’opificio fatto impiantare da Ruggero II a Palermo che aveva il compito di realizzare manufatti per i reali normanni.

Il termine stauroteca deriva dai termini greci stauros, che significa legno o croce, e theke, custodia. È infatti una croce-reliquiario visto che al suo interno, in un piccolo vano coperto da un vetro, è conservato un pezzo di legno che apparterrebbe alla vera croce di Cristo.

Tutte e due le facce della croce sono infatti decorate con ori e smalti. Il recto della stauroteca presenta cinque tondi decorati a smalto e raffiguranti al centro Cristo Pantocratore e alle quattro estremità i tondi con i quattro evangelisti. Nel braccio della croce, sotto il tondo rappresentante il Cristo, è presente la piccola custodia cruciforme contenente la reliquia della Croce. Il verso della stauroteca presenta invece al centro il Cristo Crocefisso, anch’esso realizzato a smalti. I tondi alle estremità della croce rappresentano la Madonna, S. Giovanni Battista, rispettivamente alla destra e alla sinistra del Cristo così come nelle Deisis di tradizione bizantina, poi in alto l’arcangelo S. Michele e in basso la rappresentazione di un altare a richiamare l’Eucarestia.

Il piede della stauroteca non è coevo alla parte superiore, ma è un’opera del XV con decorazioni in stile gotico, anch’essa di pregevole fattura.

Per secoli questo capolavoro d’arte venne conservato nel tesoro della cattedrale. Oggi, dopo varie vicende e dopo la collocazione nel Museo che ne permette la fruibilità da parte dei visitatori, viene ancora esposta in cattedrale nel Venerdì Santo durante le funzioni che celebrano la Passione del Cristo.

Fonte:
Lorenzo Coscarella, Il simbolo della Città custodito all’interno del Museo Diocesano, in “Parola di Vita”, 15 marzo 2018, p. 11.

Scrigno barocco

L’oratorio dell’Arciconfraternita del Rosario di Cosenza, facente parte del complesso architettonico di San Domenico, rientra a pieno titolo tra i tesori barocchi meglio conservati dell’intera regione

di Lorenzo Coscarella

“Abito in città ma questo posto non l’ho mai visto!” Oppure: “sono del luogo ma qui non sono mai stato”. Se, guardando qualche foto dell’oratorio del Rosario di Cosenza, dovessero venirvi in mente queste frasi, beh… è necessario porre rimedio.

Con la riapertura dell’oratorio dell’Arciconfraternita del Rosario di Cosenza dopo circa un decennio di restauri, infatti, è stato restituito al pubblico uno dei luoghi più significativi della storia della città. Un vero e proprio scrigno d’arte, che rientra a pieno titolo tra i tesori barocchi meglio conservati dell’intera regione.

L’oratorio è parte del complesso architettonico monumentale di San Domenico, il cui nucleo principale si iniziò a costruire a metà ‘400 su strutture preesistenti, poi evolutosi nel tempo fino a raggruppare chiese, cappelle, chiostro, convento, giardini e strutture accessorie. Almeno dal XVI secolo fu fondata al suo interno una confraternita di laici dedicata alla Madonna del Rosario e legata all’ordine dei Domenicani.

La confraternita divenne presto una delle più prestigiose della città e, nel ‘600, si dotò di un proprio luogo dove tenere assemblee e celebrare le funzioni principali. Gli stessi padri domenicani nel 1630 concessero una porzione di terreno dove già erano presenti alcune costruzioni, e i membri della confraternita si impegnarono ad edificare lì il proprio oratorio, dotarlo di fondi sufficienti, decorarlo, e farvi tenere le celebrazioni religiose sotto la guida dei padri del vicino convento.

Il risultato dell’impegno di questa confraternita nel rendere sempre più bello il proprio luogo di culto e di riunione, apportando nei secoli le modifiche dettate dai gusti e dagli stili che man mano si susseguivano, è quello che si vede ancora oggi. Alla struttura principale dei primi anni del ‘600, della quale restano i paramenti murari, si sono aggiunte col tempo le cappelle laterali, gli affreschi della fascia superiore e, nel ‘700, gli stucchi e la lunga serie di panche lignee lungo le pareti laterali, sulle quali prendevano posto i membri della congregazione.

Ma quello che attira subito l’attenzione di chi entra è il pregevole soffitto risalente anch’esso al ‘600. I grandi riquadri in legno intagliato e dorato coprono l’intera superfice, lasciando spazio ad alcune tele raffiguranti scene della vita di Cristo e della Vergine legate ai misteri del Rosario. Al centro campeggia lo stemma del committente dell’opera, Lorenzo Landi. E pensare che tutto questo, durante i bombardamenti del 1943, non è andato distrutto solo per un soffio.

Un’ultima sorpresa la riserva la cupola che sormonta la zona del presbiterio, una delle rare cupole interamente affrescate rimaste in Calabria. Il grande dipinto rappresenta la Vergine in gloria, accolta dalla Trinità tra uno stuolo di santi e angeli che ne popolano l’intera superfice.

A chi dovesse trascorrere l’estate in città, a chi è di passaggio e ad ogni curioso, consigliamo di controllare sulla pagina Facebook “Chiesa San Domenico – Missionari OMI” gli orari di apertura e pensare ad una visita. Fidatevi, ne vale la pena.

Fonte:
Lorenzo Coscarella, Scrigno barocco, in “Infonight”, agosto 2021, pp. 40-41.

La Cattedrale di Cosenza compie 800 anni

La data e le notizie sulla consacrazione del 1222 sono state tramandate da una antica pergamena custodita nell’Archivio Diocesano, ripresa da numerosi storici

Dopo la distruzione subita a causa del terremoto del 1184 e i lunghi lavori di ricostruzione che ne seguirono, la cattedrale di Cosenza venne consacrata solennemente il 30 gennaio dell’anno 1222. È una delle date “simbolo” della storia di Cosenza, passata agli annali, oltre che per la consacrazione del principale edificio sacro della diocesi, anche per la venuta in città dell’imperatore Federico II di Svevia e per il dono che questi fece all’arcivescovo Luca della preziosa stauroteca.

La notizia della consacrazione, della data in cui avvenne, e della presenza dell’Imperatore, ripresa da tutte le fonti, ci viene in particolare tramandata da una antica pergamena custodita attualmente presso l’Archivio storico diocesano di Cosenza. Il documento, anche se in una copia che sembra risalire al XV secolo, riporta il testo dell’originaria bolla di consacrazione del duomo del 1222 e contiene un elenco dei vescovi intervenuti, il riferimento alla presenza di Federico II, il numero e il titolo degli altari consacrati e l’elenco delle reliquie inserite al loro interno.

Proprio la presenza dell’Imperatore, del legato papale Niccolò Chiaramonte, ed il gran numero dei vescovi intervenuti (Reggio, Taranto, Bisignano, San Marco, Siracusa, Nicastro, Martirano, Belcastro, Mileto, oltre che il Legato papale e l’Arcivescovo di Cosenza) dà l’idea della solennità dell’evento, durante il quale l’altare maggiore dedicato alla Vergine venne consacrato dal rappresentante del papa, quello di mezzogiorno dedicato a S. Giovanni Battista da Ruggero vescovo di Mileto, e quello di settentrione dedicato ai santi Pietro e Paolo da Guglielmo vescovo di Bisignano. L’elenco delle reliquie è imponente, e si accordavano delle indulgenze a chi nei giorni seguenti avesse visitato il tempio appena consacrato, e a chi lo avesse fatto ogni anno nell’anniversario della consacrazione. Poco noto è che il giorno successivo venne benedetto anche il cimitero della cattedrale stessa.

Questa preziosa testimonianza è giunta fino a noi perché era conservata, insieme ad un altro gruppo di pergamene, presso l’archivio del Capitolo della Cattedrale che si trovava presso la stessa chiesa, mentre molti antichi documenti custoditi nell’archivio della curia andarono perduti in seguito a distruzioni e dispersioni avvenute fino all’800. Il documento doveva essere conosciuto e citato già nel ‘500.

Nel 1667 l’intero testo del documento venne trascritto dall’abate cistercense Ferdinando Ughelli nel nono tomo della sua monumentale “Italia sacra”, nella quale descrive la storia delle diocesi italiane riportando anche documenti altrimenti non più reperibili. Grazie all’opera di Ughelli il testo è stato conosciuto anche oltre i confini nazionali, venendo riportato anche nella “Historia diplomatica Friderici Secundi” edita a Parigi nel 1852, che raccoglie i documenti legati alla figura dell’Imperatore.

Ma una delle testimonianze più interessanti la troviamo in un altro autore locale: il mai abbastanza studiato Domenico Martire. Martire, nella sua “La Calabria Sacra e Profana”, scrisse della consacrazione della cattedrale avvenuta il 30 gennaio 1222 e fa un esplicito riferimento al documento, definito “Istromento nell’Archivio del Capitolo di Cosenza”. E fa anche di più. Scrive infatti che il documento “leggesi ogni anno in detto giorno”, attestando così come ancora nella seconda metà del ‘600, il 30 gennaio di ogni anno veniva solennizzata la ricorrenza dell’anniversario e veniva data lettura della bolla di consacrazione.

Una ulteriore consacrazione dell’intera chiesa avvenne il 25 giugno 1759, dopo i lavori di rifacimento di mons. Capece Galeotta, e da allora è questa la data che, dal punto di vista liturgico, ricorda la “dedicazione” della cattedrale.

Lorenzo Coscarella

Fonte articolo intero:
Lorenzo Coscarella, La bolla che svela i segreti della Cattedrale, in “Parola di Vita”, 27 gennaio 2022, p. 16.

Presentati i 28 corali della Biblioteca Civica di Cosenza

Risalgono al XVI secolo e vennero eseguiti da amanuensi monastici calabresi. Giunsero alla Biblioteca Civica di Cosenza probabilmente nella seconda metà dell’Ottocento, in seguito alla soppressione dei monasteri

Che la Biblioteca Civica di Cosenza sia uno scrigno di tesori è risaputo, almeno da parte di chi a Cosenza è attento al patrimonio culturale cittadino. Spesso “matrattata” e mai abbastanza valorizzata, la Civica continua però a conservare e a restituire “pezzi” importanti della storia cosentina, e non solo. Lunedì 11 ottobre 2021 sono stati presentati al pubblico, intervenuto all’evento organizzato dall’Accademia Cosentina, i 28 corali liturgici pergamenacei che nello scorso anno sono stati oggetto di consistenti interventi conservativi.

Volumi realizzati su pergamena e in grande formato, in modo da poter essere utilizzati per il canto nel coro, i corali risalgono al XVI secolo e vennero eseguiti da amanuensi monastici calabresi. Giunsero alla Biblioteca Civica di Cosenza probabilmente nella seconda metà dell’Ottocento, in seguito alla soppressione dei monasteri presso i quali erano conservati, scampando così alla sorte di molti altri beni andati dispersi.

I corali hanno subito anche le traversie recenti della Civica e, a causa di un incalzante deterioramento, avevano bisogno di interventi urgenti. Grazie all’impegno delle istituzioni periferiche del Ministero della Cultura operanti sul territorio è stato possibile attingere così ai finanziamenti necessari per eseguire i lavori di conservazione, eseguiti nel corso del 2020.

L’evento di presentazione, introdotto dal presidente dell’Accademia Cosentina Antonio D’Elia, ha visto la partecipazione della direttrice della Biblioteca Civica Antonella Gentile e del direttore della Biblioteca Nazionale Massimo De Buono. La restituzione al pubblico di questo tesoro culturale rappresenta il frutto dell’accordo di valorizzazione, o “patto”, come lo definisce il presidente D’Elia, tra Ministero della Cultura, per il quale ha avuto un ruolo significativo il sottosegretario Anna Laura Orrico, Biblioteca Nazionale di Cosenza, Accademia Cosentina e Biblioteca Civica. Ministero e Soprintendenza hanno curato la parte tecnica e progettuale e la Biblioteca Nazionale ha seguito tutto l’iter per concretizzare l’intervento.

La dottoressa Annamaria Santoro, della Biblioteca Nazionale di Cosenza, ha sottolineato il lavoro di sinergia tra le varie istituzioni, un’occasione virtuosa che ha permesso di condurre un intervento conservativo che ha salvato dei veri e propri capolavori. Le relazioni che hanno tratteggiato nel dettaglio gli interventi condotti e l’importanza che i corali della Biblioteca Civica rappresentano non solo per Cosenza, ma per l’intero Mezzogiorno, sono state tenute dal soprintendente archivistico e bibliografico della Calabria Gabriele Capone e dall’ispettore onorario della Soprintendenza Alda Arilotta.

Il restauro è stato tenuto dal laboratorio di restauro Scripta Manent di Reggio Calabria. Durante l’evento è stato anticipato che si spera di potere avviare interventi di conservazione anche per diverse pergamene e per alcune platee conservate dalla Biblioteca Civica, e soprattutto, come auspicato da tutti, che si possa valorizzare al meglio questi tesori troppo spesso negletti.

Lorenzo Coscarella

Fonte articolo:
Lorenzo Coscarella, Presentati i 28 cortali della Biblioteca Civica, in “Parola di Vita”, 14 ottobre 2021, p. 16.

Foto pagina Fb “Soprintendenza archivistica e bibliografica della Calabria”

I mulini ad acqua di Cosenza

Sulle rive del Busento e del Crati nei secoli scorsi operarono diversi mulini ad acqua per la macinazione di cereali. Un tempo fondamentali anche per l’economia cittadina, oggi non ne resta quasi traccia.

Si pensa ai mulini ad acqua per la macinazione di grano e altri cereali come strutture specifiche di paesaggi di campagna, funzionali ad una economia tipicamente rurale. In realtà a Cosenza, bagnata dai grossi fiumi Crati e Busento e da vari altri loro affluenti, i mulini ad acqua erano tanti, ed erano costruiti lungo i fiumi fin quasi nella città. Se ne ha attestazione almeno dal Basso Medioevo.
Nel 1208, ad esempio, Federico II concedeva diversi beni all’abbazia di S. Maria della Sambucina, a Luzzi. Molti dei possedimenti concessi si trovavano nelle pertinenze della città di Cosenza e tra questi figurava anche un mulino sul fiume Busento.

Una importante attestazione, sia documentale che grafica, della presenza dei mulini nella Cosenza del ‘500 ci viene fornita dalla nota raffigurazione della città nota come “Carta dell’Angelica”, elaborata intorno al 1584. Nella carta sono localizzati più mulini, indicati come “Molina di Crati” e “Molina di basenti” e distribuiti sui rispettivi fiumi. Graficamente le costruzioni dei mulini sono rappresentate come piccoli edifici caratterizzati da grandi archi nella parte inferiore, ad indicare la bocca per la fuoriuscita dell’acqua verso i vicini fiumi.

Di seguito alcune rielaborazioni realizzate utilizzando le raffigurazioni dei mulini ad acqua individuabili nella carta del 1584 e nella stampa pubblicata da Pacichelli del periodo 1698-1703, ed altre coeve. In quella che segue sono evidenziati i mulini sul fiume Busento:

Cosa rimane oggi dei mulini sul Busento? Ci sono ancora dei resti di un mulino verso la confluenza con il fiume Jassa, inglobato in altri edifici e circondato da abitazioni. Non è certo che sia uno di quelli presenti nelle raffigurazioni citate, ma è la testimonianza che la loro attività è stata utile all’economia locale probabilmente fino agli inizi del ‘900.
Nella stessa zona, poco più a monte ma ricadendo già nel comune di Dipignano, è ancora presente il toponimo “molino irto”.

Nella rielaborazione che segue sono invece evidenziati i mulini sul fiume Crati:

La testimonianza visuale più datata è ancora una volta quella della carta dell’Angelica, di fine ‘500. Di sicuro un mulino sulla sponda destra del Crati è stato attivo fino alla metà del ‘900. Era il Mulino Leonetti, nel quartiere della Massa-Sant’Agostino, mulino originariamente ad acqua il cui canale pescava dal torrente Caricchio. Venne trasformato in mulino elettrico probabilmente agli inizi del ‘900 e la sua struttura è stata col tempo rimaneggiata e ampliata tanto da ospitare anche una scuola fino a qualche anno fa.

Nell’articolo pubblicato sul settimanale Parola di Vita è possibile trovare ulteriori notizie e approfondimenti su alcuni aspetti storici della presenza dei mulini a Cosenza.
Per chi fosse interessato all’argomento, invece, si segnala il gruppo Facebook Mulini ad acqua di Calabria, dove è possibile ripescare post e discussioni non solo sui mulini di Cosenza e del Cosentino, ma dell’intera regione.

Lorenzo Coscarella

Clicca sull’immagine per leggere l’articolo intero pubblicato su Parola di Vita del 22-07-2021:

Lorenzo Coscarella, La storia dei mulini ad acqua di Cosenza, in “Parola di Vita”, 22 luglio 2021, p. 8.

Il popolarismo nel Mezzogiorno nel libro di Lorenzo Coscarella e Paolo Palma

Il volume, che raccoglie gli atti del convegno nazionale dell’ICSAIC “Alla scuola di don Sturzo. Il popolarismo nel Mezzogiorno a cento anni dall’Appello ai liberi e forti”, presenta un bilancio critico del popolarismo in Calabria e nel Sud Italia

L’esperienza del Partito popolare italiano, fondato nel 1919 da don Luigi Sturzo, fu breve ma significativa. Dopo decenni nei quali il non expedit aveva, almeno ufficialmente, limitato la partecipazione dei cattolici italiani alla politica attiva, il nuovo partito si proponeva di rappresentarne a livello politico le istanze. Del resto la limitazione politica non aveva significato immobilità, né assenza di partecipazione alla vita sociale del paese. Anzi, il movimento cattolico era attivo su più fronti, basti pensare alla diffusione di leghe del lavoro e classi rurali di ispirazione cattolica che si diffusero in molte zone italiane.

La ricorrenza del centenario della fondazione del Ppi ha dato occasione di riflettere ancora su questa importante esperienza, in continuità con gli studi che, floridi nei decenni passati, si erano diradati negli ultimi anni. Il volume “Alla scuola di don Sturzo. Il popolarismo nel Mezzogiorno a cento anni dall’Appello ai liberi e forti”, pubblicato da Pellegrini Editore, si inserisce in questo filone, aggiornando gli studi presenti sul Mezzogiorno in generale e sulla Calabria in particolare. Il libro è curato da Lorenzo Coscarella e Paolo Palma. Coscarella, giornalista e insegnante, è membro del Direttivo dell’ICSAIC ed ha all’attivo diversi articoli e pubblicazioni di carattere storico. Dal 2011 collabora con “Parola di Vita”, curando in special modo la pagina dedicata agli approfondimenti storico-culturali. Paolo Palma, storico, giornalista parlamentare e già deputato nella XIII legislatura, è il presidente dell’ICSAIC ed è autore di vari volumi e saggi, con particolare attenzione per l’antifascismo di matrice repubblicana.

L’opera raccoglie gli atti del convegno nazionale tenutosi all’Università della Calabria il 13 novembre 2019 e organizzato in occasione del centenario dell’Appello ai liberi e forti dall’ICSAIC, l’Istituto Calabrese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea, impegnato a livello regionale sin dal 1983 nella ricerca e nella valorizzazione della storia contemporanea calabrese e non solo. Come il convegno, anche il volume è dedicato a quattro personalità che hanno lasciato il segno negli studi sul movimento cattolico calabrese e meridionale: Antonio Guarasci, Pietro Borzomati, Luigi Intrieri e Maria Mariotti.

“Quello presentato dal volume – come evidenziano i curatori – è un bilancio critico. Come i contributi dei vari autori hanno mostrato, la scuola di don Sturzo non fu sufficiente al Ppi, un secolo fa, per radicarsi nel Mezzogiorno per come il suo fondatore avrebbe voluto, puntando a una radicale democratizzazione dello Stato”. Al Sud, infatti, l’impostazione sturziana si scontrò con diversi fattori endemici. In vari territori il partito dovette scendere a compromessi con il notabilato e con le altre forze politiche già dominanti a livello locale, fino poi a finire quasi “schiacciato nella morsa della destra cattolica” ormai vicina al fascismo.

L’opera presenta le relazioni di studiosi esperti ed autorevoli. L’introduzione riporta i saluti di Paolo Palma, Presidente dell’ICSAIC e curatore del volume, di Nicola Antonetti, presidente dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma, di Raffaele Cananzi, già presidente dell’Azione Cattolica e deputato del nuovo Ppi, e di Francesco Raniolo, direttore del DISPeS dell’Unical. Roberto P. Violi, dell’Università di Cassino, nel suo intervento su Partito popolare, democrazia e integrazione nazionale nell’Italia meridionale, ha messo in evidenza lo scostamento del Ppi al Sud dal progetto originario sturziano. Giuseppe Palmisciano, della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli, si è occupato di analizzare i rapporti tra Chiesa e Ppi al Sud, ricorrendo a documentazione dell’Archivio apostolico vaticano che tocca anche diverse realtà locali, tra cui la Basilicata di don Vincenzo D’Elia, uno dei collaboratori di Sturzo.

Da segnalare anche il contributo di Daria De Donno, dell’Università del Salento, che esamina la parabola del Ppi in Puglia rilevando come le vicende del popolarismo nel Meridione seguano un “successo a geografie differenziate”. Antonio Costabile, dell’Università della Calabria, analizza invece con uno sguardo sociologico il rapporto tra popolarismo e populismo. Particolarmente significativi gli approfondimenti legati alla Calabria. L’attività politica dei cattolici durante la Grande Guerra è esaminata nella relazione di Giuseppe Ferraro, dell’Università di San Marino, mentre il direttore dell’Archivio storico diocesano di Cosenza, Vincenzo A. Tucci, si è soffermato sui rapporti tra Chiesa, vescovi e politica nel Cosentino nel 1919. Lorenzo Coscarella, curatore del volume, analizza invece le vicende del popolarismo a Cosenza e nella sua provincia, dalla nascita fino al lento declino dovuto al rafforzamento del potere fascista. Non mancano gli interventi dedicati alle figure più rappresentative di quell’esperienza, come quella di Vito Giuseppe Galati, oggetto della relazione di Vittorio De Marco dell’Università del Salento; di don Francesco Caporale, approfondita nella relazione del vescovo di Oppido Mamertina-Palmi mons. Francesco Milito, e di don Luigi Nicoletti, tratteggiata nell’intervento del vescovo di San Marco Argentano-Scalea mons. Leonardo Bonanno.

Vittorio Cappelli, direttore dell’ICSAIC, ha invece approfondito il rapporto tra don Carlo De Cardona, principale organizzatore del movimento cattolico cosentino, ed il fratello Nicola, attivo dirigente prima del Partito socialista e, dal 1921, di quello comunista. Conclude il volume l’intervento di Francesco Altimari, che si sofferma sulle vicende del popolarismo nei paesi arbëreshë attraverso la documentazione inedita di Achille Altimari. I contributi raccolti nel volume, dunque, presentano e analizzano vicende e protagonisti del popolarismo sturziano sottolineando ciascuno un aspetto peculiare, con attenzione alle esperienze calabresi e uno sguardo più ampio all’intero Mezzogiorno.

Redazione PdV

Parola di Vita, 25 marzo 2021, p. 11